[Questo articolo è uscito su F Settimanale il 23 agosto 2022.]
Ho abitato al di là di un ponte dai sei ai ventidue anni: secondo René Guénon e i suoi simboli della scienza sacra, il Pontifex romano era letteralmente un “costruttore di ponti”, ovvero colui che è in grado di collegare due mondi separati, per gli ebrei il ponte era pegno dell’alleanza tra Dio e la sua gente, in Cina è segno dell’unione fra il cielo e la terra, mentre presso svariati popoli rappresenta il passaggio che lega il mondo sensibile a quello sovrasensibile. Superato questo significato mistico il ponte rappresenta sempre il passaggio da uno stato a un altro, il cambiamento o il desiderio di cambiamento: per me, dai sei anni fino ai ventidue, era la strada sopra il fiume che divideva la mia casa e il mio quartiere dal centro città, costruito sopra un colle modesto e senza vento, la provincia dove c’era la scuola e la domenica le signore indossavano le pellicce più vistose e gli smalti più lucidi per andare a messa e infine passeggiare lungo i corsi a braccetto, fermandosi a comprare le paste per il pranzo mentre gli uomini si riunivano in cerchio nella piazza, con le biciclette appoggiate contro le cosce, discutendo di politica pioggia figli donne e calcio. E se varcare un ponte rimane il passaggio da uno stato a un altro, a diversi livelli come le epoche della vita, come gli stati dell’essere e nel mio caso i luoghi familiari dell’infanzia, l’ “altra riva”, per definizione, è la morte.
Ma cosa succede se nel momento in cui si sta per varcarlo, quando il ponte è esattamente sotto di noi, questo all’improvviso cessa di esistere?
Alle undici e trentasei del quattordici agosto duemiladiciotto il viadotto Polcevera, noto anche come ponte Morandi o ponte delle Condotte, che era un ponte vero, non immaginario, non metaforico, costruito in legname, muratura, ferro, acciaio, lega d’alluminio, calcestruzzo armato, cemento armato e resine fibro-rinforzate, crollò di colpo spezzando in due la città di Genova. Tra le persone a bordo dei mezzi che transitavano sul ponte e gli operai al lavoro nella sottostante isola ecologica morirono in quarantatré. Cinquecentosessantasei tra i residenti nelle case sotto il pilone dieci furono evacuati per motivi precauzionali. Quel giorno guardai per ore le notizie sovrapporsi concitate nei telegiornali mentre la tragedia assumeva sempre di più i contorni dell’inconcepibile, dentro il mio soggiorno il termostato segnava trenta gradi e a Genova pioveva fitto sulle lamiere e sulle macerie e sul brusio attonito di un Paese che cercava di comprendere, di capacitarsi. Quei numeri sarebbero diventati presto visi, nomi, storie – il dolore collettivo, il dolore della notizia, che dopo il volo planetario attraverso l’etere poggia i piedi a terra e frantuma per sempre case, quotidianità, progetti per l’estate, sogni di una vita.
A distanza di quattro anni l’immagine del ponte che crolla credo non sia qualcosa che abbiamo introiettato; e questo forse non ha a che vedere con l’elaborazione del lutto e la legittima e doverosa individuazione delle responsabilità penali, ma con il fatto che il ponte ha un’essenza simbolica e allo stesso tempo concretamente terrena, è struttura e via di comunicazione e oggi ovunque ci muoviamo siamo connessi gli uni agli altri, il nuovo secolo ci presenta opportunità immense di interazione. Non è un caso che di ponti parlino le religioni più antiche, che ne racconti la letteratura mondiale spaziando tra quelli materiali e quelli dell’immaginazione: c’è il ponte più ininterrottamente utilizzato nella storia, a Izmir, in Turchia, costruito intorno all’850 a.C. e chiamato Kervan Köprüsü, il Ponte delle Carovane, alcuni sostengono che lo stesso Omero lo abbia attraversato da ragazzo e Herman Melville in una pagina di diario del 20 dicembre 1856 ne descrisse la “successione costante di treni di cammelli, cavalli, multi e asini”, e poi c’è il racconto Il ponte di Franz Kafka, dove la struttura assume le sembianze di un uomo, le persone gli passano sopra finché, non sopportando più il dolore dei transiti distratti, lui lascia la presa e crolla nel vuoto, facendo precipitare tutti passanti e sembra qui risuonare un avvertimento: non date mai per scontato che una congiunzione sia lì per sempre. Di quel quattordici agosto duemiladiciotto, tuttavia, rammento anche un’altra immagine che per mesi fece il giro del mondo: quella del camion della catena dei supermercati Basko fermo sull’orlo del baratro, il suo muso azzurro e il cassone verde con la scritta rossa, unica macchia di colore sgargiante contro il cielo d’acciaio. Al volante c’era Luigi Fiorillo, salernitano residente a Genova: aveva trentasei anni, una compagna che poi avrebbe sposato e due figli piccoli: più si avvicina a Genova più la pioggia è forte, racconterà, e alle undici e trentasei sul viadotto Polcevera un’auto gialla lo sorpassa e lo costringe a rallentare, Fiorillo riduce la velocità e mantiene la distanza di sicurezza, poi di colpo vede l’auto gialla e tutte le altre scomparire davanti al suo parabrezza, così inchioda e ferma il traffico, scende dal camion lasciandolo col motore acceso, inizia disperatamente a correre all’indietro. Fiorillo, uomo riservato, dichiarerà più volte di aver sofferto l’esposizione mediatica e si domanderà le ragioni di tutta quell’attenzione, spesso sfociata in vere e proprie molestie da parte di giornalisti e di curiosi. Dirà di aver voluto tenere un profilo basso, nel rispetto delle quarantatré vittime. Il suo camion abbandonato resterà comunque uno dei simboli più potenti della tragedia, al punto che nel 2020 Sogegross, società proprietaria del marchio Basko, deciderà di metterlo a disposizione dell’amministrazione comunale genovese.
Ogni narrazione, lo sappiamo, genera e vivifica i propri simboli, aggiungendo un valore nuovo a un oggetto o a un’azione attraverso un movimento di sintesi, dipendente dalla necessità di ridurre e presentare in modo forte un’esperienza o un pensiero altrimenti troppo sfuggenti, e un movimento di approfondimento, reso possibile dal fatto che il simbolo diviene la porta attraverso cui raggiungere ciò che sfugge, ciò che sembra troppo complesso da pensare e spiegare. In tanti, sui social network, suggerirono che il furgone dei supermercati Basko potesse rappresentare un’idea di speranza, di salvezza; che possedesse una sua sacralità, una funzione museale di memoria. Ancora oggi, in questo quarto anniversario, quando ragiono sul camion blu e verde che si staglia a un passo dal precipizio mentre il cielo è gonfio e ferito, mi ritrovo a considerare che forse la forza del suo simbolismo sta nel legame non tanto con quello che è caduto e precipitato qualche metro avanti, ma con ciò che è il primo a non farlo, il primo a essere quasi salvo. Piove sulle macerie sotto il viadotto spezzato, sull’asfalto dell’autostrada, sul tetto del cassone del furgone che resta a dieci metri dal baratro per due giorni prima di venire rimosso: ci sforziamo di capire come processare la morte e resta un’impresa frustrante, soprattutto quando cessa di esistere la ritualità del passaggio tra uno stato e l’altro, eppure pensare in maniera intellegibile alla circostanza, al minuto, alla frenata che ci hanno tenuto in piedi sul ciglio del precipizio sembra ancora più arduo. Forse perché la sopravvivenza inizia ad accadere in un secondo momento, quando si ha davvero coscienza di trovarsi ancora sulla prima riva a respirare, mentre quell’istante appena antecedente, quel camion immobile su un moncone di ponte appena crollato, è l’esercizio di un’altra esperienza di impari intensità e indicibilità: Amelia Rosselli, nella poesia Sweet Chaos, a sweetening visionary, l’aveva chiamata la gioia piccola d’esser quasi salvi.