Respirando l’odore del male. Il continente bianco di Andrea Tarabbia

 [Questo articolo è uscito su Limina Rivista il 7 marzo 2023.]

Possono, le storie, esaurirsi in un libro solo? Forse no, forse non sempre, forse – mi permetto uno sbilanciamento più radicale – nemmeno dovrebbero. Con questa premessa inizia Il continente bianco di Andrea Tarabbia, uscito nell’agosto 2022 per Bollati Boringhieri, prendendo le mosse proprio da una storia già raccontata, quella de L’odore del sangue di Goffredo Parise, scritto di getto in un’estate del 1979 e pubblicato postumo da Rizzoli nel 1997.
Nell’opera di Parise siamo a Roma, alla fine degli anni Settanta: uno psicanalista cinquantenne, Filippo, scopre che la moglie Silvia ha perso la testa per un ragazzo, un giovane fascista; tra i due coniugi il sentimento si trascina stanco e i due si sono già traditi diverse volte, entrambi alla ricerca di quel che non riescono più a darsi reciprocamente e sempre raccontandosi tutto, ma questa volta è diverso, questa volta l’amante di Silvia emana un fascino cupo, mortale, impostando con la donna una relazione dominante, e Filippo proietta le proprie fantasie erotiche proprio sul rapporto tra Silvia e il ragazzo, si fa confidare i dettagli più torbidi, fino a costruire con lei una nuova intimità morbosa e, in conclusione, distruttiva.

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La vita che arde di Stig Dagerman

 [Questo articolo è uscito su Limina Rivista il 19 dicembre 2022.]

C’è una poesia di Eugenio Montale che mi sorprendo spesso a sussurrare a mezza voce nel silenzio, come un ricordo o una promessa: si tratta di Piccolo Testamento, in apertura all’ultima sezione di Satura, e in particolare sono i versi iniziali e finali, quando Montale scrive che la poesia è una traccia, madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato, lontana da ogni ideologia, resistente e tenace pur nella sua apparente gracilità (una fede che fu combattuta, una speranza che bruciò più lenta, un duro ceppo nel focolare), e quando dice che nell’incertezza di questa vita e di questo mondo, nel pieno urto dei monsoni, in fondo accade un fatto potentissimo: ognuno riconosce i suoi e la mutevolezza delle apparenze e degli esiti, perché l’orgoglio non era fuga, l’umiltà non era vile, il tenue bagliore strofinato laggiù non era quello di un fiammifero. Ognuno, quindi, riconosce i suoi: mi è successo molte volte, nel corso degli anni, tra le pagine di romanzi, saggi e raccolte poetiche, a me come a tutti, voci che di prepotenza e bellezza affiorano dal mare ondoso della letteratura e si aggrappano alla barca che ci stiamo costruendo, salgono a bordo, ci aiuteranno a remare, a individuare una direzione, a dare un nome alle cose o semplicemente taceranno in nostra compagnia davanti al medesimo confuso orizzonte. Ognuno riconosce i suoi: mi è successo, per esempio, con Stig Dagerman.

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La gioia piccola d’esser quasi salvi

[Questo articolo è uscito su F Settimanale il 23 agosto 2022.]

Ho abitato al di là di un ponte dai sei ai ventidue anni: secondo René Guénon e i suoi simboli della scienza sacra, il Pontifex romano era letteralmente un “costruttore di ponti”, ovvero colui che è in grado di collegare due mondi separati, per gli ebrei il ponte era pegno dell’alleanza tra Dio e la sua gente, in Cina è segno dell’unione fra il cielo e la terra, mentre presso svariati popoli rappresenta il passaggio che lega il mondo sensibile a quello sovrasensibile. Superato questo significato mistico il ponte rappresenta sempre il passaggio da uno stato a un altro, il cambiamento o il desiderio di cambiamento: per me, dai sei anni fino ai ventidue, era la strada sopra il fiume che divideva la mia casa e il mio quartiere dal centro città, costruito sopra un colle modesto e senza vento, la provincia dove c’era la scuola e la domenica le signore indossavano le pellicce più vistose e gli smalti più lucidi per andare a messa e infine passeggiare lungo i corsi a braccetto, fermandosi a comprare le paste per il pranzo mentre gli uomini si riunivano in cerchio nella piazza, con le biciclette appoggiate contro le cosce, discutendo di politica pioggia figli donne e calcio. E se varcare un ponte rimane il passaggio da uno stato a un altro, a diversi livelli come le epoche della vita, come gli stati dell’essere e nel mio caso i luoghi familiari dell’infanzia, l’ “altra riva”, per definizione, è la morte.

Ma cosa succede se nel momento in cui si sta per varcarlo, quando il ponte è esattamente sotto di noi, questo all’improvviso cessa di esistere?

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Quel che non si vede scompare: Livia De Stefani e la mafia in letteratura

[Questo articolo è uscito su Limina Rivista il 23 marzo 2022.]

Livia De Stefani (1913-1991)

Negli scorsi mesi ho tentato un esperimento: ho chiesto ad amici e conoscenti se conoscessero il nome del primo scrittore o della prima scrittrice a raccontare il fenomeno mafioso nella letteratura italiana. La replica, ogni volta, è stata unanime: Leonardo Sciascia con Il giorno della civetta, nel 1960. In realtà non si trattava, come avrebbero scoperto i miei amici nel corso della nostra chiacchierata, della risposta giusta. Non che tirare fuori il nome di Sciascia fosse un demerito, sia chiaro, e nemmeno una nota di biasimo: io stessa l’ho creduto per molto tempo, diligentemente formata dai programmi scolastici dei primi anni Duemila e dagli esami di letteratura contemporanea fedeli al canone consolidato nel secolo scorso. Di Livia De Stefani, scrittrice siciliana vissuta tra il 1913 e il 1991, e del suo romanzo La vigna di uve nere non sapevo assolutamente nulla.

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