La settimana scorsa ho letto la storia degli innamorati Inga e Karsten, rispettivamente 85 e 89 anni, rispettivamente residente in Danimarca e residente in Germania, e dei loro incontri ad Aventoft, al confine tra i due Paesi. Dopo la chiusura, infatti, l’unico modo che hanno per guardarsi negli occhi è davanti alla sbarra bianca e rossa che segna la frontiera, su un paio di sedie portate da casa. Inga ha detto di voler trascorrere tutto il suo tempo con Karsten, perché “passa troppo lentamente quando si è soli”.
Oggi rimbalza invece sui giornali italiani la notizia, un po’ buffa, della briscola clandestina organizzata da un gruppo di pensionati al Canale Villoresi, nella campagna milanese, e delle strategie messe in atto per eludere la sorveglianza di famiglie e forze dell’ordine: tutto per una mano come si deve insieme, vicino allo specchio d’acqua, nel silenzio vespertino e senza i filtri tremolanti di Skype, Zoom, Gotomeeting – sempre che li sappiano usare. Persone irresponsabili? Persone egoiste e individualiste? O forse, banalmente, persone sole? Mercoledì scorso, davanti al supermercato, qualcuno usciva con borse flosce, semivuote, e giocavo a indovinarne la magra spesa: un po’ di pane, un po’ di scatolame, un pacco di pasta, due mele – pochi euro nel portafogli? la pensione da dover aspettare? partita iva che da un mese vive senza reddito? Chissà. Stamattina, al sole slavato della piazza, un ragazzo bighellonava con le mani in tasca e gli occhi chiusi, e ho capito che si beveva la luce, alla disperata ricerca di un po’ di fotosintesi esistenziale (no, non tutti posseggono giardini e balconi e finestre affacciate sul cielo).
Più approfondiamo questa quarantena, più mi riesce difficile non domandarmi da dove venga davvero questo nostro ritrovato rigore nel seguire pedissequamente le regole draconiane che ci vengono imposte, e soprattutto nel denunciare prontamente con strilli indignati chi invece non lo fa. Abbiamo finalmente ricominciato a pensarci come una società civile? Ci fidiamo del patto con i nostri governanti e rispettiamo le competenze? Oppure – come scriveva ieri Maurizio Maggiani – abbiamo semplicemente paura di morire? E chi e che cosa stabilisce la priorità dell’inaccettabile? Viene prima la morte o la solitudine? O la fame? Io non ho risposte e forse non le voglio nemmeno. Però la compassione, in questa burrasca, mi sembra l’unico bagliore di lampara: splende tra le mani di chi esercita la solidarietà concreta, curando, assistendo, trasportando, ed è uno sfarfallio caldo e stupefacente anche in una pratica alla portata di tutti: l’assenza di (pre)giudizio. Quella che si coltiva con l’immaginazione. Quella che che, una volta, chiamavamo empatia.