Respirando l’odore del male. Il continente bianco di Andrea Tarabbia

Questo articolo è uscito su Limina Rivista il 7 marzo 2023.

Possono, le storie, esaurirsi in un libro solo? Forse no, forse non sempre, forse – mi permetto uno sbilanciamento più radicale – nemmeno dovrebbero. Con questa premessa inizia Il continente bianco di Andrea Tarabbia, uscito nell’agosto 2022 per Bollati Boringhieri, prendendo le mosse proprio da una storia già raccontata, quella de L’odore del sangue di Goffredo Parise, scritto di getto in un’estate del 1979 e pubblicato postumo da Rizzoli nel 1997.
Nell’opera di Parise siamo a Roma, alla fine degli anni Settanta: uno psicanalista cinquantenne, Filippo, scopre che la moglie Silvia ha perso la testa per un ragazzo, un giovane fascista; tra i due coniugi il sentimento si trascina stanco e i due si sono già traditi diverse volte, entrambi alla ricerca di quel che non riescono più a darsi reciprocamente e sempre raccontandosi tutto, ma questa volta è diverso, questa volta l’amante di Silvia emana un fascino cupo, mortale, impostando con la donna una relazione dominante, e Filippo proietta le proprie fantasie erotiche proprio sul rapporto tra Silvia e il ragazzo, si fa confidare i dettagli più torbidi, fino a costruire con lei una nuova intimità morbosa e, in conclusione, distruttiva.

Ne Il continente biancoTarabbia sposta la vicenda di Parise ai giorni nostri e vi entra da una porta per così dire laterale: il giovane amante di Silvia, Marcello Croce, guida a Roma un movimento di estrema destra, il Continente bianco appunto, ed è bello, inquieto, violento, «un individuo delicato, fragile all’apparenza (…) uno di quei Cristi disegnati nei libriccini del catechismo per bambini: biondi, buoni, puliti e calmi anche nel mezzo di una tormenta di sabbia o di un incendio, con uno sguardo che sembra dirti che non ci saranno problemi, se lo seguirai, che non ci saranno il Male né il dolore e tutto alla fine sarà giusto». L’altro elemento di novità è il cambio di prospettiva: la voce narrante non è più quella dello psicanalista, che qui diventa il dottor P***, ma di un suo paziente, un Andrea Tarabbia alter ego dello scrittore, che entra in scena nello studio dello specialista e finisce per incrociare le strade di Silvia e Marcello, subendo un’attrazione magnetica per il giovane, per quella «patina di levità» che porta nel volto e che forse nasconde qualcosa pronto a esplodere. Così Marcello Croce attira il narratore verso il Continente bianco e l’Andrea Tarabbia del romanzo non si tira indietro, incuriosito ne frequenta i ritrovi e ne conosce i membri, per mimetizzarsi partecipa addirittura a un’azione violenta: ne diventa, a tutti gli effetti e fino all’epilogo, il testimone ufficiale.

Così Tarabbia scrittore sceglie di dare voce a chi, nel romanzo di Parise, non l’aveva: il mondo sotterraneo e ribollente dell’estrema destra, facce vite nomi e storie che non si tirano indietro e si raccontano in tutta la loro furia, una Roma lontanissima dallo studio del dottor P*** in cui il narratore sembra immergersi come calamitato, «questa città immensa (…) che si porta dentro qualcosa di perennemente funebre, come se fosse condannata a morire domani e domani invece non muore, ma si trascina fino a dopodomani, e poi fino al giorno dopo dopodomani, e poi ancora, all’infinito, in un continuo presagio di morte confutato da una continua, precaria forma di salvezza che la mantiene in uno stato terminale, ma vivo».
Se come accade ne L’odore del sangue Marcello Croce conduce Silvia alla morte lungo un percorso di sempre maggiore e masochistica sottomissione (non è uno spoiler, lo leggiamo nelle primissime pagine), all’interno de Il continente bianco il suo personaggio si arricchisce, trova una voce distinta e si trasforma nell’incontrollabile motore dell’intero movimento narrativo. L’odore del sangue è l’odore del sesso e del desiderio ma anche l’odore del male, un unico nucleo abominevole e allo stesso tempo vitale, aderente insomma all’esistenza umana nella sua più autentica complessità. Il rapporto di Marcello Croce con Silvia sembra alludere, nemmeno troppo metaforicamente, al fascino morboso che alcune idee hanno esercitato (ed esercitano) sulla borghesia italiana, ma non soltanto: la verità (una verità) è che l’orrore non si limita a respingere le brave persone (o coloro che si ritengono tali) attraverso un definitivo meccanismo di repulsione ma risponde a un doppiezza, a un bianco che rischia spessissimo di sporcarsi, a un dubbio che non osiamo confessare («Ti affascinano cose terribili e questo fascino ti spaventa, perché hai paura che, nascosto dentro questo sentimento, ci sia qualcosa che dice che, nel tuo profondo, sei un uomo peggiore di quello che credi di essere»).

C’è già tantissimo, in questo libro, ma riesce ad esserci ancora di più: il romanzo di Tarabbia è una continua stratificazione di piani e di temi, gestiti attraverso una scrittura così chiara e letteraria al punto che sembrerebbe che tra percezione ed espressione corra un rapporto di assoluta immediatezza, quando invece questa è apparente, è frutto di distanza rispetto a quanto percepito, si tratta insomma di lavoro di stile. Il Continente bianco è un racconto sul potere, in tutte le sue declinazioni, sul fascino degli abissi e dell’indicibile, sulle ossessioni, ma anche (evviva!) sulla scrittura e sull’immaginario, sulla postura formale di chi narra e sulla legittimità e sulla responsabilità dell’atto del narrare («Scrivere vuol dire anche sopportare il dolore degli altri, e un mondo giusto, dal punto di vista di chi lo vuole raccontare, è una stortura, un abominio»).
Pur toccando tematiche a noi estremamente vicine, come la rabbia sociale e il fanatismo politico dell’estrema destra («L’Italia è uno Stato democratico imposto con la forza a una nazione intimamente fascista», dice a pagina 120 Tito Malaspina alias lo Zar), Andrea Tarabbia costruisce un romanzo che riesce a essere contemporaneo senza scadere nel tempo affrettato dell’attualità, dove il ricorso all’autofiction è espediente letterario esemplificativo, a servizio della storia, e non compiacimento ombelicale, dove la lingua possiede un nitore e un lirismo sorgivi e calibrati, confermandosi uno degli scrittori italiani più interessanti degli ultimi anni.

La vita che arde di Stig Dagerman

Questo articolo è uscito su Limina Rivista il 19 dicembre 2022.

C’è una poesia di Eugenio Montale che mi sorprendo spesso a sussurrare a mezza voce nel silenzio, come un ricordo o una promessa: si tratta di Piccolo Testamento, in apertura all’ultima sezione di Satura, e in particolare sono i versi iniziali e finali, quando Montale scrive che la poesia è una traccia, madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato, lontana da ogni ideologia, resistente e tenace pur nella sua apparente gracilità (una fede che fu combattuta, una speranza che bruciò più lenta, un duro ceppo nel focolare), e quando dice che nell’incertezza di questa vita e di questo mondo, nel pieno urto dei monsoni, in fondo accade un fatto potentissimo: ognuno riconosce i suoi e la mutevolezza delle apparenze e degli esiti, perché l’orgoglio non era fuga, l’umiltà non era vile, il tenue bagliore strofinato laggiù non era quello di un fiammifero. Ognuno, quindi, riconosce i suoi: mi è successo molte volte, nel corso degli anni, tra le pagine di romanzi, saggi e raccolte poetiche, a me come a tutti, voci che di prepotenza e bellezza affiorano dal mare ondoso della letteratura e si aggrappano alla barca che ci stiamo costruendo, salgono a bordo, ci aiuteranno a remare, a individuare una direzione, a dare un nome alle cose o semplicemente taceranno in nostra compagnia davanti al medesimo confuso orizzonte. Ognuno riconosce i suoi: mi è successo, per esempio, con Stig Dagerman.

A novembre la casa editrice Iperborea, proseguendo il meritorio lavoro di traduzione e pubblicazione delle opere dello scrittore svedese, ha dato alle stampe una raccolta selezionata delle sue poesie. Breve è la vita di tutto quel che arde, tradotto e curato da Fulvio Ferrari, include una scelta di componimenti liberi, le dikter (poesie), diversi per finalità e stili, tratti dal decimo volume dell’edizione svedese delle opere complete, e parte dei circa milletrecento dagsedlar, poesie satiriche a commento della cronaca politica e sociale del tempo che Dagerman scrisse per il giornale anarchico Arbetaren, che si trovano invece nel nono volume. In entrambi i casi, svedese e italiano, si tratta di un’operazione filologica postuma: Dagerman in vita non pubblicò mai un corpus delle proprie liriche.

Per molti giorni le ho lette e rilette, perché con la poesia è così, raramente si esaurisce in una prima volta, e soprattutto non si strappa lungo i bordi, non si legge in modo omogeneo, nel mentre non si sta per forza seduti, convinti, concentrati; laddove un mondo narrativo stabilisce varchi e confini d’ingresso e d’uscita, il verso si mimetizza nelle giornate e nei margini accartocciati, nel mio caso specifico anticipi ritardi treni schiamazzi e tavolini di bar. Un bar dentro un quartiere, un quartiere dentro una città: e se fosse un porto, come l’hamn dove tutto ha la barba di due settimane, dove Dagerman nota una cosa spaventosa, e cioè che qui più di tutto le navi temono l’acqua? Riesco a vedere quel posto, lì volteggiano gabbiani sordomuti, avanza la ruggine, il capitano che dovrebbe dare l’ordine per salpare esita, tiene la mano sopra la campana, più di ogni altra cosa l’immobilità teme la partenza: il porto è la vita, una putrescente fiaba, l’immensa sputacchiera di dio. La condizione umana, che nella prosa di Dagerman non trovava facili sconti o comode consolazioni, attraverso il linguaggio poetico delle dikter si rivela in tutta la sua inadeguatezza e il suo dolore. In Messaggio per Natale (1951) la solitudine dell’essere umano è un dramma cosmico che occorre accettare, inutile rifugiarsi nella religione o nell’illusione del potere: alle stelle non dobbiamo credere perché son cose lontane, che splendono solo per se stesse, per noi s’accendon gli occhi e sono quelli che andrebbero seguiti, così come bisogna diffidare di re e di angeli, i primi si credono saggi ma una spada è il loro sguardo, la mano un coltello, i secondi arrivano sempre troppo tardi. In Riviera, composta nel 1948, sembra che l’ordinarietà e la calma apparente di un luogo di villeggiatura riflettano la nostra impotenza frustrata in un universo senza dio: c’è una sala da tè sulla costa, sassolini bianchi, il mare chiaro, un clima di generale distensione e serenità; eppure le palme che s’innalzano sulla ghiaia sono come elefanti pietrificati ed è impossibile non rabbrividire davanti a uno dei versi più duri: in uno dei torridi bar c’è chi prende un drink invece di morire. No, dio non esiste e non esiste salvezza, e soprattutto breve è la vita di tutto quel che arde: Dagerman lo ribadisce anche in maniera più didascalica, perché fingere che sia una fede quando forse è solo disperazione (Sesto atto)? Eppure, esattamente come accadeva nei racconti, nei romanzi e nei reportage, Dagerman lascia sempre un piccolo bagliore acceso in fondo alla notte: un po’ di speranza rimane, e la si ritrova nella fratellanza. Perduti in un universo che è loro indifferente, oppressi dalle ingiustizie e dalle crudeltà del vivere civile, gli esseri umani dovrebbero contare soltanto gli uni sugli altri: perché se libertà c’è, è negli occhi di nostro fratello (Messaggio di Natale) e soprattutto (uno dei quei concetti dagermaniani da ripetersi fino allo sfinimento) un uomo in meno che ha fame è un fratello in più (Il mondo non puoi cambiarlo). Nella sezione dei dagsedlar i toni si fanno più acuminati, il verso è quasi sempre in rima e la metrica più tradizionale: la forma perfetta per scagliarsi contro le distorsioni della politica e della società. Dagerman commenta con amarezza, tra le altre cose, gli accordi della democratica Svezia con la Spagna di Franco, la retorica della pace del 1945 dinnanzi a distese di morti, il rifiuto da parte delle autorità militari di mettere a disposizione le caserme vuote ai senzatetto di Stoccolma, i presunti vantaggi delle nuove bombe batteriologiche statunitensi, i maltrattamenti dei bambini negli orfanotrofi. Ecco i tempi moderni, dal titolo di uno dei dagsedlar: tutto è mutato in peggio, una volta la libertà era un uomo in cammino, ora è un cannone su una sedia adagiato.

Come giustamente osserva Fulvio Ferrari nella postfazione al volume Iperborea, questa distinzione di carattere generale tra dagsedlar e dikter non deve far pensare a un corpus omogeneo, ma anzi ci troviamo di fronte a una grande varietà di temi, atmosfere e scelte formali. L’unico tratto di continuità resta lo sguardo di Stig Dagerman, riconoscibile nella passione civile, nell’indignazione accorata, nel tormento esistenziale. C’è una poesia in particolare che, letta e riletta, mi lascia sempre sul punto di piangere: s’intitola Suite per Birgitta e si apre con un’immagine deflagrante: in quale acqua si è immersa l’ala che sgocciola malinconia sulla fronte della terra? Lo smarrimento umano non conosce tregua e un verso mi ha inchiodata a quel punto per diverso tempo: c’è una tomba per le nostre barche aperte. L’idea della navigazione, della disponibilità a guardare, a sporgersi, forse a soccorrere, e la morte di tutti questi tentativi, la funerea celebrazione del nostro fallimento: abbiamo davanti il dolore della terra, siamo parte di esso. Ma ancora – ed è qui che mi commuovo, qui che sento e percepisco davvero lo Stig Dagerman di Autunno tedesco, de Il nostro bisogno di consolazione, di Bambino bruciato – non tutto è perduto: così Birgitta, destinataria di questi versi, non deve piangere, c’è un ponte bianco sui boschi di ottobre, e nessuno di noi dovrebbe farlo. Poiché dobbiamo leggere finché il libro dura, dobbiamo camminare finché il ponte resta. Solo nella solitudine più grande potremo finalmente incontrarci.

Quel che non si vede scompare: Livia De Stefani e la mafia in letteratura

Questo articolo è uscito su Limina Rivista il 23 marzo 2022.

Negli scorsi mesi ho tentato un esperimento: ho chiesto ad amici e conoscenti se conoscessero il nome del primo scrittore o della prima scrittrice a raccontare il fenomeno mafioso nella letteratura italiana. La replica, ogni volta, è stata unanime: Leonardo Sciascia con Il giorno della civetta, nel 1960. In realtà non si trattava, come avrebbero scoperto i miei amici nel corso della nostra chiacchierata, della risposta giusta. Non che tirare fuori il nome di Sciascia fosse un demerito, sia chiaro, e nemmeno una nota di biasimo: io stessa l’ho creduto per molto tempo, diligentemente formata dai programmi scolastici dei primi anni Duemila e dagli esami di letteratura contemporanea fedeli al canone consolidato nel secolo scorso. Di Livia De Stefani, scrittrice siciliana vissuta tra il 1913 e il 1991, e del suo romanzo La vigna di uve nere non sapevo assolutamente nulla.

Eppure quando De Stefani pubblica La vigna è il 1953, da anni lei vive a Roma e frequenta ambienti colti e tra gli altri ha rapporti con Elsa Morante, Vitaliano Brancati, Maria Bellonci: è nota, ben collocata, stimata. Ha lasciato Palermo grazie al matrimonio con lo scultore Renato Signorini, conosciuto ad appena diciassette anni, ed è stata ben felice di farlo, lei figlia di ricchi proprietari terrieri che ha sempre sofferto la mentalità chiusa e soffocante della propria terra natia. Ma alla sua isola deve ogni tanto fare visita, per amministrare le proprietà di famiglia, e quegli scenari dell’entroterra palermitano entrano con prepotenza nelle sue storie.

La vigna di uve nere è il suo primo romanzo, esce con una prefazione di Carlo Levi che parla di una scrittura densa di luoghi chiusi «nei recinti e nei pensieri» e dove «ogni partenza è fuga, ogni fuga è sacrilegio, tradimento, delitto mortale». Livia De Stefani richiama a sé una Sicilia dura e immobile, profondamente patriarcale, brutalmente arcaica: la vicenda è ambientata nei primi decenni del Novecento a Cinisi, dove Casimiro Badalamenti coltiva le sue vigne di uve nere e manda avanti i suoi loschi affari. Casimiro è uomo rude, spietato, ha sposato Concetta, prostituta del paese, per senso del possesso e della convenienza, con lei ha avuto quattro figli che per sua precisa volontà sono stati cresciuti da altre famiglie contadine. Nessuno di loro è a conoscenza degli altri fratelli e quando dopo anni Casimiro decide che è venuto il momento di riprendersi la prole, accade l’impensabile: il primogenito Nicola e la secondogenita Rosaria cedono alla reciproca attrazione e questo li porterà all’incesto. Ma Casimiro Badalamenti, mafioso di caratura minore che vorrebbe diventare vero uomo d’onore e che per questa ambizione è disposto anche a sacrifici di sangue, non può accettare il rischio di una vergogna insostenibile, a un pubblico ludibrio che metterebbe a rischio la sua posizione e la sua ascesa al potere criminale, e così per Nicola e Rosaria non ci potrà essere che un tragico epilogo. L’uomo padrone stabilisce i destini delle donne e dei giovani della sua famiglia, senza appello e in modo autodistruttivo.

Il romanzo riscosse un buon successo e venne tradotto in molti Paesi; fu, a tutti gli effetti, la prima opera letteraria a descrivere nemmeno tanto velatamente i meccanismi mafiosi che schiacciavano le terre siciliane. Livia De Stefani continuò la sua carriera letteraria: uscì la raccolta di racconti Gli affatturati (1955) e uscirono altri romanzi, tra cui Viaggio di una sconosciuta (1963) e l’ultimo lavoro prima della morte, La mafia alle mie spalle (1991).

In questo libro la mafia possiede sembianze ancora più primitive e attinge all’esperienza diretta che l’autrice ebbe con i codici d’onore e l’omertà; la Sicilia è un’isola assolata, ripiegata verso l’interno, il mare sembra non esistere e De Stefani racconta delle sue difficoltà di proprietaria terriera e imprenditrice, costantemente in guerra contro la diffidenza dei contadini verso le sue decisioni considerate insolite, come quella di piantare vigne al posto del grano. Il ritratto risulta impietoso, degrado e ignoranza dominano gli individui e le relazioni, la mafia impone la sua ombra opprimente: a un certo punto Livia De Stefani incontra il boss Vincenzo Rimi che sbotta con un «Minchiuni, per essere una donna bene ragiona». Il romanzo si chiude con il terremoto del Belice del 1968 e con la decisione dell’autrice di vendere le proprie terre, contro il volere della famiglia. I suoi conterranei non le perdoneranno mai questo sguardo disincantato e feroce. 

La vigna delle uve nere irrompe sulla scena letteraria italiana in un momento in cui ancora nessuno scrittore e nessuna scrittrice hanno raccontato il fenomeno mafioso in tutta la sua drammaticità. Era apparsa una commedia in dialetto, I mafiusi di la Vicarìa, scritta da Gaspare Mosca e Giuseppe Rizzotto, e un testo per il teatro di Giovanni Alfredo Cesareo, intitolato Mafia. Si trattava però di opere concentrate soprattutto ad analizzare la manifestazione criminosa in termini di comparazione sociale con il mondo borghese, visto come termine di paragone assolutamente retto e pulito. Nessuno si era ancora sporcato le mani mettendo quel mondo torbido al centro dell’ingranaggio letterario nei termini di una quotidianità da cui non si può sfuggire, dominante e a tratti bestiale. Dove c’è la vigna di Casimiro Badalementi «non si odono voci né cigolii di carri, né picchiettii di zoccoli di bestie. (…) Se il vento è favorevole, ne arriva un ansimare fioco e tramortito come di persona soffocata da un bavaglio; un ansimare che, per non essere percorso da altre varianti di suono, diventa un’aggiunta di silenzio»: con un stile descrittivo, intenso, Livia De Stefani non lascia riprendere fiato e immerge il lettore in un’atmosfera asfissiante.
La durezza del personaggio di Casimiro s’intuisce già dal suo aspetto, «un uomo di media statura, non grasso, ma atticciato; il busto aveva simile a un pilastro, spalle e fianchi della stessa misura; e le gambe, piuttosto corte, fornite di robusti polpacci, gli si arcuavano in modo che i pantaloni sul davanti gli spiombavano pressoché vuoti e dal di dietro invece si riempivano, stirati in tondo dalle prominenti muscolosità. La testa, che su quel corpo avrebbe dovuto essere pesante, e di capelli ricciuti, era inaspettatamente piccola, stretta alle tempie da cui si partivano neri capelli lisci, e mobilissima su di un collo troppo sottile per quel tronco. Gli occhi, anche da giovane, li ebbe contornati da minuscole rughe, causate forse dal costante sforzo compiuto a mantenerli socchiusi, come per troppo sole».

La violenza che lo caratterizza mostra invece un crescendo morboso, nelle parole scelte per imporsi sugli altri e nell’indifferenza feroce verso i figli che ha sradicato con disinvoltura, per poi richiamarli a sé come bestie. Concetta, moglie e madre, sembra esistere solo per soccombere all’autorità del marito, privata di ogni prospettiva e di qualsiasi possibilità di arbitrio sui propri affetti, sugli spazi che abita, sul proprio corpo. Docilmente sottomessa non si ribella a Casimiro nemmeno quando la sua prepotenza raggiunge vertici fatali. Nel romanzo non sembra esistere riscatto, la lingua affilata di Livia De Stefani rintuzza la ferocia dei rapporti e del paesaggio, cancella il mare, le tempeste, il vento, la speranza.

Al netto della riconoscibilità del fenomeno mafioso, letterariamente è un romanzo riuscito, dove l’ingranaggio narrativo procede senza intoppi fino al culmine finale supportato da una scrittura poderosa. Eppure di Livia De Stefani, nel Novecento, ci si è progressivamente dimenticati. I suoi libri sono andati gradualmente fuori catalogo, a eccezione di Viaggio di una sconosciuta ripubblicato da Cliquot nel 2018 e Gli affatturati da Elliot 2016, e ancora oggi, mentre scrivo queste righe, La vigna delle uve nere è reperibile solo in ISBN edizioni, in una versione stampata nel 2010 e le cui ultime copie in circolazione sono giacenze di magazzino: l’edizione precedente era quella di Mondadori seguita da una ristampa di Rizzoli e siamo alla fine degli anni Cinquanta. Come al solito, più che gli esiti di un processo e le risposte, trovo tuttavia molto più interessanti le domande: perché è accaduto e perché non si è ancora posto rimedio a questa marginalità?

Nell’ottobre 2018 Claudia Durastanti e Giorgia Tolfo firmavano un pezzo molto interessante, intitolato Il mio canone è meglio del tuo. L’occasione era la pubblicazione da parte della rivistaVulture di un abbozzo di canone del ventunesimo secolo, messo insieme da un gruppo di critici tutti appartenenti all’editoria middlebrow americana. Durastanti e Tolfo osservavano di aver letto quasi tutti i titoli proposti, e se il merito della lista poteva essere quello di parlare a più di una generazione e vari gruppi demografici era evidente un dato comune: era una lista che parlava sempre in inglese. A quel punto la prima considerazione da fare, al di là delle speculazioni filosofiche su cosa sia un canone in sé, era domandarsi quali fossero stati i parametri di composizione, quale il campo di scelta e chi i selezionatori, e di fatto, alla luce dell’identificazione del mercato editoriale americano come vero catalizzatore della lista di Vulture, era innegabile un dato: nella scelta di usare la parola canone si celava sempre un atto di imperialismo culturale, la cui diretta conseguenza è il consolidamento dell’indissolubile relazione tra mercato e prestigio letterario.

La questione sembra restare sostanzialmente questa: quello che abbiamo letto e che leggiamo è il risultato di una visibilità e se la visibilità è un riflesso del potere quel che non si vede rischia di scomparire. Il buco nero che ha inghiottito Livia De Stefani e La vigna di uve nere non è mai stata una faccenda di demerito così come il canone che l’ha esclusa dalla scena letteraria italiana non lo si può intendere come un’entità impalpabile che si genera in autonomia dalle scelte politiche e culturali di una nazione o di un gruppo: il canone si genera esattamente in corrispondenza di esse. Se queste scelte si possono discutere e modificare nel tempo, è un’opportunità che possiamo darci ogni giorno. I libri, anche i più invisibili, lasciano tracce e segni del loro passaggio e spesso si lasciano trovare anche nei coni d’ombra più fitti della storia. Come quello di Livia De Stefani, la prima scrittrice italiana a raccontare la mafia in un romanzo.

“Le cose da salvare” vince il Premio Salerno Libro d’Europa

“Le cose da salvare” ha vinto il Premio Salerno Libro d’Europa!

Grazie al Salerno Letteratura Festival, ai suoi infaticabili organizzatori che hanno fatto un lavoro incredibile, addomesticando le difficoltà dell’emergenza sanitaria e regalandoci un’edizione palpitante e ricchissima, di cui Francesco Durante sarebbe stato orgoglioso. Grazie a Paolo Di Paolo, a Matteo Cavezzali, a Daria Limatola. A Salerno città sorridente e lucente. Viva i libri, gli esseri umani, i limoncelli alle tre del mattino, e le cose che perdurano.

Salerno Lett